Lug 182017
 

Roma, Parco Rosati, 11 Luglio 2017

★★★½☆

20023843_2308855499338845_4142140617958979945_oDifficile racchiudere la carriera di Mark Lanegan in poche righe. Ma è doveroso introdurre l’ex frontman degli Screaming Trees come colui che, dopo 30 anni di miltanza sulle scene, spaziando in lungo e largo con progetti e collaborazioni di livello, ha ancora il coraggio di osare. Anche a rischio di tirarsi dietro le invettive di chi lo ha amato per il percorso intrapreso da solista nei primi anni 90, lasciato il terreno del grunge e affermatosi come songwriter maledettamente oscuro e profondo, con quella voce dal potere di insinuarsi sotto la pelle e salire fino a toccare le corde più profonde nell’animo di chi lo ascolta. Un coraggio tipico (ma non usuale) di chi questo mestiere lo fa perché sente di dover seguire la propria vena artistica, una voglia di andare oltre confrontandosi con se stessi e con nuove motivazioni piuttosto che adagiarsi sugli allori di un successo acquisito che avrebbe permesso a chiunque una vita di rendita. Infatti non poche sono state le critiche mosse all’artista di Ellensburgh nel percorso intrapreso tre album orsono, da “Blues Funeral”, passando per “Phantom Radio” e finendo con “Gargolyle”, l’ultima fatica che sta portando in tour con tre date qui in Italia. Tre album che abbandonano il folk e blues delle origini strizzando piuttosto l’occhio all’elettronica e danno vita, con la sovrapposizione della voce roca e profonda di Lanegan, a una miscela interessante e originale. Accompagnato da ottimi musicisti tra cui l’ormai collaboratore fisso Duke Garwood, polistrumentista Inglese cui è affidato anche il compito di aprire la serata (assieme al belga Lyenn), Lanegan si presenta sul palco puntuale e in gran forma, dando via ad uno show che sfiorerà le due ore di durata.

35038035664_35885e0bfd_bL’inizio è affidato all’esecuzione di “Death’s Head Tattoo” e “The Gravedigger’s Song” suggestive ballad elettro-dark, rispettivamente aperture di “Gargolyle” e “Blues Funeral”. Ma i pezzi nuovi vengono sapientemente intervallati da brani altrettanto carichi di energia seppur relegati in un passato prossimo. E dopo “Riot in my House” ecco invertire la marcia del tempo per l’esecuzione di “Wish You Well” seguita da “Hit in the City” meraviglioso pezzo realizzato nella versione originale con l’ausilio di PJ Harvey, altro grandissimo animale da palcoscenico. Infatti un ulteriore merito da riconoscere al protagonista della serata è quello di essersi confrontato continuamente con artisti della sua caratura, senza paura di dover in qualche modo cedere terreno alla notorietà altrui, mettendosi continuamente in gioco. Una cosa è certa: lui fa esattamente ciò che vuole fare. La sua figura si staglia sul palco, nonostante le scarse luci e l’abbigliamento completamente nero, circondato da una band che sa il fatto suo e che, con un sound travolgente e contagioso, riesce a tenere a fatica le persone presenti ferme nelle anguste sedie che l’organizzazione ha pensato bene di allestire per un concerto come questo. Lo stesso Lanegan lascia andare il suo corpo a movimenti spasmodici, avvinghiato all’asta del microfono, con un trasporto davvero inusuale per il personaggio, notoriamente schivo. Ma tant’è! Godiamoci il concerto, senza dover recriminare ulteriormente dopo aver digerito anche il cambio di location in extremis per motivi non ancora ben precisati. Questa è l’ultima tendenza dell’estate romana, pare (Villa Ada docet). Anche il fonico sembra aver trovato la giusta quadra verso l’ottavo pezzo. Infatti dopo “Nocturne” e soprattutto “The Emperor” in cui voce e suono sono irrimediabilmente impastati,  “Goodbye to Beauty” è eseguita alla perfezione. Nonostante l’ampia produzione solista, Lanegan sceglie di non autocelebrarsi con pezzi degli album capolavoro quali “Field Songs“ e soprattuto “Whiskey for The Holy Ghosts”. I brani, ad eccezione delle già citate “Wish You Well” e “Hit in the City”, provengono tutti dagli ultimi 4 lavori in studio. Come a voler prendere le distanze, almeno per questa sera, dal passato. Nel passato invece ci immerge fino al midollo quando, dopo aver eseguito almeno una ventina di pezzi tra cui una versione molto suggestiva di “Metamphetamine Blues”, affida il gran finale a “Love Will Tear Us Apart” dei Joy Division. Probabilmente solo un‘anima altrettanto oscura e una voce ugualmente toccante come quella di Mark Lanegan avrebbe potuto omaggiare con un brano così la memoria di Ian Curtis.

Ce ne andiamo via felici ma senza le forze per poter affrontare la fila dell’after dove ci viene riferito che l’artista si concede per foto e autografi apparendo visibilmente soddisfatto, forse quasi sorridente.

Live report: Claudia Giacinti35877220785_574845ce23_k
Foto: Emanuela VH Bonetti

Setlist:
Death’s Head Tattoo
The Gravedigger’s Song
Riot in My House
Wish You Well
Hit the City
Nocturne
Emperor
Goodbye to Beauty
Beehive
Ode to Sad Disco
Harborview Hospital
Deepest Shade
(The Twilight Singers cover)
Harvest Home
Floor of the Ocean
Torn Red Heart
One Hundred Days
Head
Methamphetamine Blues

Encore:
The Killing Season
Love Will Tear Us Apart
(Joy Division cover)

 

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