Giu 092010
 

Roma, Atlantico live, 24 maggio 2010

★★★★½

È stato un concerto commovente. Commovente per tutta la storia che c’era dietro. Per tutto quello che i Pavement hanno scritto. Per quel movimento che i Pavement hanno segnato e che rappresentano. Per un genere che hanno portato avanti loro insieme a pochi altri. Per gli anni ’90 a cui non smettiamo di rivolgerci, nostalgici e stupiti di tanta meraviglia. Perché sappiamo a malincuore che band così non ce ne sono più. Perché anche in uno squallido reunion tour fatto solo per soldi può ricrearsi una magia. Perché canzonette dalla melodia trascinante possono ancora cambiarti la vita. Farti piangere, farti sognare, farti ridere, farti arrossire, farti urlare, farti tornare ai tuoi 17 anni. A quelli in cui pensavi di essere invincibile, ma eri ancora più fragile di quello che sei adesso. Filastrocche piene di poesia, nonsense pieni di verità, di quella follia che si cerca per un’intera vita e che si ritrova solo in pochi momenti. Sarà che il sottoscritto con gruppi come Pavement, Pixies, Sonic Youth, Dinosaur jr., ecc. c’è cresciuto e che quindi forse ci vede la malinconia a priori. Sarà che sono un nostalgico degli anni ’90 e degli ’80 buoni. Ma l’emozione era enorme.
C’è voluto un po’ prima che la band e il pubblico si lasciassero andare. Troppo tempo dall’ultimo tour. Un po’ la ruggine, un po’ l’età, un po’ i chili di troppo, un po’ la voglia di suonare della band che forse non è la stessa di quando avevano 20 anni. Dei 5, infatti, 4 hanno pance abbastanza evidenti. L’unico che si salva è Malkmus che ha continuato a suonare per fatti suoi tutti questi anni. Fedi alle dita. Un po’ svogliati. Sul palco solo per necessità. Ma poi pian piano cresce ritmata quella sintonica magia: una band che non suona insieme da 10 anni si dimentica di tutto e si tuffa nell’eternità del sogno del rock’n’roll. E noi siamo lì ad assistere, fedeli al sogno di cui siamo fermi professanti. Succede quello che non ti aspetti. Quello che solo la musica riesce a fare: si torna negli anni ’90. Si abbatte qualunque possibile muro e per 1 ora e mezza, i 5 sul palco iniziano a divertirsi e tornano ad avere 20 anni. E dall’altra parte del confine, c’è un pubblico che 20 anni ce li ha davvero e che si ostina a sentire musica del secolo scorso e a venerare “novelli dinosauri”.
Venendo ai nostri e alla cronaca del concerto, sapevamo che i Pavement cambiano scaletta ad ogni concerto, non tanto per i pezzi suonati (che vanno a pescare da un bagaglio di circa 35 brani), ma per l’ordine di esecuzione. Quindi sapevamo che l’ordine avrebbe assunto un significato, un ruolo e un valore fondamentali per il mood da dare alla serata. E a Roma è stato un ordine dettato dalla nostalgia. Poche b side, a parte le più care al pubblico e tanti classici. Si parte con Silence Kit, primo pezzo di Crooked rain, Crooked rain, secondo album della band. Un inizio morbido ed efficace, perfetto per cominciare a ricreare quel filo interrotto dagli anni. Dopo In the mouth a desert per squarciare i sentimenti e Stereo per far prendere al pubblico le misure del parquet, Frontwards (uno dei 2 b-side proposti, proveniente dall’Ep del 1992 Watery, domestic) e Father to a sister of thoughts fanno capire l’andazzo della serata, andando a toccare le corde più nostalgiche degli accorsi. C’è l’intermezzo di Two States, cantata da Scott Kannberg, a riportarci al sano “cazzeggio” (permettetemi il termine), che rappresenta uno dei lati fondamentali dei Pavement e del Lo-fi in generale. A questo punto ci viene da pensare che la scaletta della serata è stata pensata proprio per spiazzare il pubblico e per muoverlo dentro e fuori senza tante pause tra un sentimento e l’altro, alternando momenti malinconici (lato A), a momenti spensierati e divertenti (lato B). Con Shady Lane, pezzo che avrebbe potuto e forse voluto scrivere Rivers Cuomo dei Weezer, si torna al lato A. E poi di nuovo al lato B con No life singed her, pezzo quasi rappato dal percussionista factotum Bob Nastanovich. E poi ancora al lato A con Gold Soundz e con l’apoteosi di Grounded, in cui, lo dico a titolo personale, gli occhi non riescono a rimanere aperti. Troppa poesia. E si prosegue con un destabilizzante giramento di testa: si salta con Perfume V, la geniale Date with Ikea e l’ancor più folle e acida Fight this generation. Dopo il commovente intermezzo di Spit on a Stranger, che è, significativamente, l’unico pezzo tratto dall’ultimo album in studio della band, Terror twilight (1998), viene infilata una serie di classici immancabili: Range life, Trigger cut, Starlings of the Slipstream, Summer Babe, Unfair, Cut your hair e Box Elder. Quest’ultimo pezzo nonostante non sia presente in nessuno dei cinque album in studio della band è più classico dei classici e richiesto dal pubblico a gran voce. Così si chiude la prima parte del concerto.
I 5 rientrano sul palco con Kennel District e a quel punto viene spontaneo ripensare a quella volta che avremmo avuto la possibilità ma non abbiamo avuto il coraggio di chiederglielo. Malinconia. Ma la risposta arriva con We dance, in cui la voce di Malkmus si fa fragile e speranzosa. Con Elevate me later, nella sua versione primordiale (Ell ess two), personalmente mi ritengo realizzato. Uno dei più grandi capolavori degli anni ’90, in cui c’è tutto per una perfetta lo-fi song. Riff caldo e un po’ stonato, poesia, melodia, ritmo, sferragliata noise. Ma invece le sorprese non sono finite: in una versione quasi eterna di Stop Breathing Scott Kannberg scende tra il pubblico, si fa scordare la chitarra dalle mani festanti della gente, mi mette in mano il suo bottleneck metallico e mi dice di suonare. Così passo 2 minuti di pura goduria, a spappolare la chitarra di Kanneberg sulla mitica sferragliata finale del pezzo. Scusate l’intrusione autobiografica, ma è stato un orgasmo musicale che il sottoscritto non poteva non raccontare autocompiacendosi. E così la band se ne va. Fine dei giochi? Ancora no, c’è tempo per risalire e per regalarci Here, perfetta e meravigliosa chiusura di un’ora e mezzo ai limiti dell’imperfezione che solo il Lo-fi conosce. Malinconica magia. Chi l’avrebbe mai detto? I Pavement ci sono riusciti, anche in uno stupido Reunion tour, fatto per soldi, per stupidi nostalgici degli anni ’90…

Scaletta:

Silence kit
In the mouth a desert
Stereo
Frontwards
Father to a sister of thoughts
Two states
Shady lane
No life singed her
Gold Soundz
Grounded
Perfume V
Date with Ikea
Fight this generation
Spit on a stranger
Range life
Trigger cut
Starlings of the slipstream
Summer Babe
Unfair
Cut your hair
Box elder

Bis 1:
Kennel District
We dance
Ell ess Two (Elevater me later)
Stop Breathin’

Bis 2:
Here

Recensione e foto di Alessandro Lepre

  One Response to “Pavement: che nostalgia degli anni ’90..”

  1. […] parlare dei Pixies, non posso non partire dal concerto dei Pavement, tenutosi a Roma (e anche a Bologna il giorno dopo, ma io ero a quello di Roma) appena 2 settimane […]

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