Paul McCartney – New (Virgin EMI Records, 2013)
Dopo 6 anni di attesa, forse anche carico di ottimismo dopo il matrimonio con Nancy Shevell, finalmente Paul McCartney si è deciso a tornare in studio per registrare un album di canzoni inedite (aveva composto la colonna sonora dello spettacolo teatrale Ocean’s Kingdom nel 2011 e un disco di cover di standard jazz, Kisses on the bottom, nel 2012, quindi mancava ancora all’appello un nuovo disco interamente di canzoni originali dopo Memory Almost Full del 2007). Nella sua carriera si è cimentato persino nel ruolo di produttore, ma non questa volta, in cui addirittura ha deciso di usarne quattro! (segnatamente: Paul Epworth, Mark Ronson, Ethan Johns e Giles Martin, figlio dell’eterno George, alcuni di loro conosciuti quando ancora ragazzini.).
Questo nuovo album che è nuovo anche nel titolo, New, è un disco dove le inimitabili qualità di compositore di canzoni si possono ancora notare nonostante l’età di 71 anni: la title track ha un sound fortemente beatlesiano che da tanto tempo non usciva dall’officina McCartney; Alligator e Queenie Eye hanno tutte le qualità della tipica canzone maccartiana con middle eight sbalorditivi; Early Days è un simpatico acustico che tocca il tema delle origini della sua carriera musicale, per strada insieme a John (il ritorno alla gioventù Paul lo toccò anche con That was me sul disco Memory Almost Full); Save Us e Everybody Out There sono due pezzi tipicamente rock (uno più tirato, l’altro composto con l’intenzione di farne un classico singalong) che tutto sommato si ascoltano con piacere; se comprerete la versione deluxe del disco troverete anche la simpaticissima Get me out of here, praticamente un blues suonato in acustico, che ricorda le geniali trovate del disco Ram (1971).
Scrivere di Paul McCartney comporta sempre un esercizio di rispetto verso un uomo che ha contribuito a cambiare per sempre la storia della musica rock e della musica leggera. Per cui anche voler fare qualche accenno critico verso la sua opera risulta imbarazzante, ma tocca anche farlo, se occorre. Accanto ai simpatici brani che abbiamo citato (quasi tutti nella prima parte del disco), troviamo anche dei pezzi che fanno quantomeno sorgere più di un dubbio: Appreciate, Looking at her e I can bet presentano dei suoni pesanti e fin troppo sintetizzati, volti chiaramente a catturare l’attenzione in particolar modo per la loro inutilità, suoni che a mio avviso non dovrebbero riguardare uno con la storia di McCartney, suoni che ricordano più i dischi di Jennifer Lopez (o per essere più realisti, visto che ormai sono buoni amici, sui dischi di Jay Z). Dispiace davvero che Paul abbia voluto fare questi esperimenti, forse sarebbe stato meglio ricordarsi di altri momenti della sua carriera in cui adattarsi troppo al momento musicale ha provocato plateali fallimenti (penso al disco Press to Play dell’86, in particolare). Dispiace ancora di più che ad aver prodotto questi pezzi in particolare sia stato Giles Martin, dal figlio del produttore dei Beatles ci saremmo dovuti aspettare delle meraviglie (però per carità, ricordiamoci anche dell’onesto lavoro che portò avanti insieme al padre sul remix di brani dei Beatles che curarono per il Cirque de Soleil nel 2006…). Per fortuna il voler fare un impasto sonoro più artificiale ha comunque prodotto migliori risultati nei pezzi Road e nel già citato Alligator (sui quali hanno lavorato però gli altri produttori del disco…).
Nel complesso ci troviamo di fronte a un album che lascia solo in parte soddisfatta la sete di nuovo e, come spesso in passato, eccellente materiale del genio di Liverpool, parte che corrisponde più o meno alla prima di questo disco, nella quale per fortuna le trovate interessanti non sono mancate; ma possiamo dire che in fondo è sufficiente, di Paul non ne avremo mai abbastanza e anche quando fa qualche passo falso, ce lo facciamo piacere lo stesso.
Recensione di Christian Dalenz