Ago 152013
 

Dopo una prima parte tutta dedicata all’invito all’ascolto o al riascolto di album che a nostro avviso hanno lasciato un segno indelebile nel panorama musicale contemporaneo, ecco una seconda parte focalizzata su proposte più di nicchia, provenienti da luoghi e culture molto distanti tra loro, che ben rappresentano le tante sfaccettature della nostra visione della musica.
Buona viaggio!

★★★★★

Claudia Pignocchi consiglia:

Silvio Rodriguez Dominguez – Dominguez (Musicrama 1995)
Non so se sia facile trovare questo disco in Italia perché me lo portò da Cuba una mia amica nel lontano 1997 o giù di lì.
Questa rubrica però mi dà l’occasione di parlare di questo artista e farlo conoscere a chi non sa chi sia Silvio Rodriguez Dominguez,cantautore folk cubano, conosciuto e amato in tutto il mondo di lingua e cultura ispanica. Un sessantaquattrenne poeta-musicista, bello e dolce che ha nutrito con le sue canzoni il popolo della sinistra più intelligente dell’America Latina. Bandito più e più volte dalle televisioni e le radio dei regimi dittatoriali, ha avuto il visto per entrare negli Usa solamente nel 2010 per tenere un lungo tour di concerti nelle città più importanti.
E’ un artista molto prolifico, con una ventina di album al suo attivo e con oltre 500 liriche non ancora messe in musica e che forse non lo saranno mai.
“Dominguez” è il titolo del cd in questione, l’ultimo di una trilogia che si chiama con i suoi tre nomi (nome, cognome paterno e cognome materno). Rispetto ai primi cd della sua giovinezza è senza dubbio più intimistico, ma quel che conta è che come tutta la sua musica, anche in questo lavoro lui coniuga una splendida chitarra suonata come solo i sudamericani sanno fare a una voce da eterno timido adolescente. Le sue composizioni sono semplici e pulite e vanno dritte al cuore, le parole linde (nel senso più spagnolo del termine), divertenti e talvolta anche audaci.
Ad esempio in questo cd una canzone è un capolavoro e si intitola “caballo mistico”, ma anche “ala de colibri” o “se demora” sono così aderenti a ciò che noi che amiamo Rodriguez vogliamo da lui.
Vi invito a sentire qualcosa di suo navigando su Internet. Io me ne innamorai quasi trent’anni fa perché un mio amico mi faceva delle cassette di musica sudamericana a tra tutti i cantanti e gli autori lui brillava sempre di una luce particolare.
Direi che le sue canzoni sono ottime al risveglio, e si possono canticchiare fino a sera donando una bella carica di sereno buonumore!!!

Dark Rider consiglia:

Sonne Hagal: Helfahrt (Eislicht, 2006)

Chitarre acustiche auliche, sognanti, echi magici di violini, voci eteree: in Helfart dei tedeschi “Sonne Hagal” (Sole/Oscurità) rifulge lo splendore poetico della rinascita neofolk teutonica. L’album fu composto nel 2002, ed in esso si sente la partecipazione e l’influenza di Andreas Ritter, fondatore degli immensi Forseti, autentico mentore della nuova musica folklorica, che a metà degli anni 2000 fu costretto a lasciare la scena per una malattia totalmente invalidante, e di Kim Larsen, il geniale, eclettico front man dei danesi “Of The Wand And The Moon”.
Quasi tutti i brani hanno un afflato di intenso lirismo, come quellodi apertura, Memory, Hither Come, tratto da un poema di William Blake, ma qualcuno di essi risente della lezione dei “Death in June”, nella loro versione pacatamente industrial, come Song of Experience, e dei “Sol Invictus”, come l’eterea Song of Innocence.
Ne viene fuori un’opera comunque varia, avvolgente, fascinosa e piena di pathos, che celebra gli antichi fasti dei rituali pagani germanici (la suggestiva Midwinternight, dove una pira notturna si leva indicando il cielo a tutti i partecipanti alla celebrazione del solstizio), la bellezza e l’incanto della natura incontaminata, i boschi misteriosi, le immense vallate e le montagne cupe e minacciose, in una elegiaco risveglio della cultura romantica tedesca, ove si coglie anche lo smarrimento per le tradizioni perdute.
I testi sono parte in inglese, parte in tedesco e rievocano, a volte, come nella poetica, distesa Rahido, o in The Runes are Still Alive, decisamente sperimentale, quasi in stile eletro-dark, ma non molto ispirata, o nella più avvolgente, pacata The Sick Rose, il mistero esoterico delle antiche leggende runiche, finalmente liberate da false strumentalizzazioni politiche.
Sole/Oscurità, l’album è sospeso in questa suggestiva dicotomia, tra l’aulica bellezza delle eteree voci dei canti pastorali corredate dell’uso altamente suggestivo degli strumenti acustici, e la cupezza, tipicamente DarkWave, di alcuni brani moderatamente elettronici.
Un piccolo gioiello, che trasmette allo spirito il magico incanto di una misteriosa saggezza ancestrale derivante dalle fascinose, tenebrose mitologie nordiche.

Fabrizio 82 consiglia:

Tea & Symphony – An asylum for the musically insane – (Harvest 1969)
Disco misconosciuto, An asylum for the musically insane (un nome, un programma…) è l’eccellente prodotto degli inglesi Tea & Symphony, un lavoro ibrido che spazia tra il folk, il prog e la psichedelia, senza disdegnare escursioni country (Travelling shoes) all’interno di un disco prevalentemente acustico, passato quasi del tutto inosservato all’epoca della propria uscita, precisamente nell’anno 1969 su etichetta Harvest. La band composta nel nucleo base da James Langston (voce e chitarra), Jeff Daw (guitar) e Nigel Phillips (batteria), s’inventa un lavoro che attinge ad una pluralità di generi assai riuscito nella propria polivalenza, dal cantato sperimentale di Feel how so cool the wind al blues di The come on, ideando una sorta di concept mascherato pregno di dissonanze (Armchair theater), chiuso da una summa folk-prog sorprendente come Nothing will come to nothing. Bellissima la copertina dai toni surreali. CD edito dalla Repertoire. Un lavoro indubbiamente da rivalutare

Susanna Ruffini consiglia:

La Tarantella – Antidotum Tarantulae (Alpha Productions 2002)

Nasce in Francia nel 2002 un disco fantastico di musica tradizionale italiana suonata con gusto e rinnovata freschezza dall’ensamble di musica antica diretto da Christina Pulhar.

L’Arpeggiata, ensamble di strumenti antichi specializzata in musica barocca, in questo cd esplora la tarantella italiana in molte delle sue accezioni regionali, sul filo conduttore dell’Antidotum Tarantulae, cioè l’antica credenza in auge nelle regioni del sud Italia che si potesse guarire dal morso di un ragno leggendario, la Tarantola (che in realtà non esiste poiché nessun ragno che vive nelle regioni italiane provoca alcun morso o pizzico), ballando fino allo sfinimento in una sorta di trance indotta dalla musica ossessiva e ripetitiva e dal movimento ritmico e continuo, ininterrotto per molte ore, anche per giorni interi, senza sosta.

Il cd, oltre ad essere piacevole e molto variegato, è una ricerca culturale molto interessante poiché esplora, tra le altre, anche una forma espressiva tipica del barocco: l’improvvisazione.

Ma la vera ricchezza di questo notevole cd è la parte vocale, poiché è interpretato da tre cantanti italiani di altissimo livello: Lucilla Galeazzi, Alfio Antico e Marco Beasley, grandissimi interpreti di musica popolare, ognuno con una particolarità interpretativa molto spiccata, oltre che grandi qualità timbriche. Esplorando a tutto tondo il mondo della famosissima danza popolare comunemente chiamata “Tarantella” il cd ci propone pizziche, tarantelle calabresi, tarantelle siciliane e canti d’amore del Gargano, oltre a brani originali della ternana Lucilla Galeazzi e di Alfio Antico, siciliano, grandissimo virtuoso del tamburo a cornice, senza dimenticare un brano bellissimo scritto da un misconosciuto cantante foggiano degli anni ’60 e ’70 Matteo Salvatore: Il lamento dei mendicanti.

La forza della tradizione è espressa da queste tre voci così diverse eppure perfettamente bilanciate, guidate con garbo e buona conoscenza anche filologica della tradizione musicale italiana da Christina Pulhar. Un’operazione per certi versi anche azzardata ma molto innovativa per l’anno in cui è uscita rende questo cd una pietra miliare nella riscoperta della musica popolare del sud Italia avvenuta nell’ultimo decennio, a prescindere dal fenomeno “Notte della Taranta”.

Una curiosità: il cd ha fatto da colonna sonora a un film francese del 2011 che parla di un “dissidente”, interpretato da un divertente Neri Marcorè, che scappa chiedendo asilo politico in Francia descrivendo l’Italia come un paese dove non c’è più la democrazia poiché è “ai comodi di un erotomane con il lifting, il trucco in faccia, i capelli finti che controlla tutti i poteri, la tv, la stampa, l’economia….”

Fabrizio Forno consiglia

Around the World in a Day – Prince and the Revolution (Warner 1985)

Come ogni estate faccio fatica a tenere a freno la mia indole black-soul: sarà che il periodo induce a lasciarsi andare, ad assecondare un’attitudine allo svago ed al divertimento che è poi facile abbinare al ritmo in 4/4 ed alla danza, ma non ho potuto fare a meno di pensare per questa recensione agostana al genietto di Minneapolis, troppo facilmente dimenticato e rimosso dalla memoria collettiva.
Nella corposa discografia del Principe sono certamente altri gli album imperdibili ed imprescindibili, certamente 1999 e Sign O’ the Times, anche alcune cose degli anni 90 (il triplo Emancipation) ed oltre (The Rainbow Children) meritano attenzione, mentre invece non mi unisco al coro di coloro che si spellarono le mani per applaudire il coattissimo e sopravvalutato Purple Rain. Ho voluto però scegliere quest’album, certamente minore, ma molto più affine allo spirito di questa rubrica: segnalare una perla nascosta, non necessariamente la più splendente del collier, ma quella che può meglio stimolare curiosità e voglia di intraprendere un percorso a ritroso che aiuti a conoscere meglio l’artista in questione.
Il disco uscì quando Roger Nelson era all’apice della popolarità, dopo il successo planetario del già citato Purple Rain, colonna sonora di un film musicale di cui si ricorda poco o nulla, se non l’avvenenza della conturbante Apollonia, all’epoca pupa prediletta di Prince.
Molti al suo posto avrebbero riproposto la minestrina riscaldata che tanti milioni di dollari aveva da poco fruttato. Il Principe no, Lui sceglie di sperimentare, di fare un disco psichedelico, in cui le influenze di Hendrix e quelle di Sly & the Family Stone affiorassero pienamente, e crea il suo personale Sergeant Pepper in Black. Non tutto gli riesce (il senso della misura non è mai stato il suo forte), alcuni brani ( Condition of the Heart, Temptation) alla lunga risultano troppo insistiti e prolissi, ma per deliziare le orecchie e lasciarsi andare bastano le prime note di Rasberry Beret o di Pop Life per capire quanta classe, quanta sapienza, quanta creatività, quanto senso del ritmo siano nelle corde e negli spartiti di questo musicista unico, non a caso osannato da Miles Davis, (col quale collaborò in un bel disco di Chaka Kahn).
Per finire, basta un’occhiata alla grafica della copertina del vinile, per completare il godimento dei sensi con una profonda gioia per gli occhi. Altri tempi….

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