Ott 022010
 

Somewhere, di Sofia Coppola. Con Stephen Dorff, Elle Fanning, Chris Pontius, Karissa Shannon, Kristina Shannon, Jo Champa, Alexander Nevsky, Laura Chiatti, Simona Ventura, Philip Pavel, Julia Melim, Brian Gattas, Nino Frassica. Durata 98 min. – USA 2010.

Perchè sì

★★★☆☆
Sofia Coppola è un’autrice sensibile e di qualità: l’ha dimostrato sinora in tutte le sue prove, a cominciare da “Il Giardino delle Vergini Suicide”, ove veniva narrato il raggelante suicidio programmato di cinque sorelle, la cui atroce assurdità era destinata a rimanere dopo anni ed anni nei racconti dei ragazzi del quartiere. Descrivendo l’incomprensibilità delle umane vicende, la narrazione della regista statunitense, figlia del grande Francis Ford Coppola, uno dei massimi Autori di Cinema contemporanei, vera leggenda vivente, ha costantemente proseguito per sottrazione, per le cose non dette o solamente sussurrate, in chiave fortemente minimalista, come nella bellissima descrizione dell’amicizia romantica tra una ventenne ed un cinquantenne e la sua ineludibile fine in “Lost in Translation”, oppure come nella tragica parabola di “Marie Antoniette”, la Regina capricciosa che veniva descritta nella sua spontaneità di giovane ragazza, che avanzava nei corridoi regali al ritmo della musica dei New Order.
Affine per certe tematiche a Wim Wenders, ai suoi silenzi introspettivi, alla sua concezione del viaggio come scoperta di sé stessi, anche se stilisticamente diversissima, l’autrice realizza con questa nuova opera, vincitrice del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 67, un apologo sulla solitudine umana, utilizzando un linguaggio certamente incompiuto ma a tratti pervaso da una inquieta e dolente poesia.
Vi si narrano le vicende dell’attore di primo piano italoamericano Johnny Marco (l’ottimo Stephen Dorff) che vive nel leggendario Hotel Chateau Marmont, il più europeo degli alberghi americani, costruito ad immagine di un Castello della Loira (quello dove morì John Belushi, per intenderci), insieme a molti altri Attori, (appare in un breve cammeo Benicio Del Toro). Egli vive una vita vuota, priva di senso, fatta di sesso, pasticche, festini ed alcool, di corse senza meta sulla sua fiammante Ferrari.
Totalmente abulico ed evanescente, alle conferenze stampa risponde con gratuite affermazioni alle inutili domande che gli sono rivolte, si addormenta addirittura tra le braccia della bellissima di turno che gli si offre ed assiste annoiato alle evoluzioni nella sua camera da letto di due gemelle, ballerine di lap dance.
Viene in mente lo splendido Terence Stamp del mitico “Toby Dammitt” di Federico Fellini, pellicola visionaria del 1968, che narrava la storia di un allucinato attore che, inseguendo una misteriosa bambina con una palla, trovava una spettacolare ed esoterica morte.
Molto meno drammaticamente la Coppola ci vuole raccontare con i suoi silenzi, con le sue immagini quasi patinate il senso del vuoto, il buio inconsapevole di una esistenza che si ravviva solamente quando appare la figlioletta undicenne, Cleo (una superba Ellen Fanning), scaricata per un po’ dalla madre, ex moglie dell’attore, in cerca di sè stessa.
La ragazza, anch’essa profondamente sola ma vitale e creativa, appassionata di musica e bravissima danzatrice classica, rianima il padre facendogli scoprire dimensioni psicologiche totalmente rimosse, interloquendo con lui, che le insegna a suonare la chitarra elettrica, seguendo in televisione l’esempio dei grandi musicisti rock, ma al momento della partenza gli confida il suo disagio per le sue continue assenze, facendolo sprofondare in una autentica crisi esistenziale.
Dopo aver confidato il suo senso di vuoto alla ex moglie, che lo respinge ancora e dopo l’ennesima scorribanda nel deserto con la sua Ferrari, egli abbandona la macchina e si avvia da solo a piedi, forse verso una nuova vita.
C’è qualcosa di Antonioni nel film della regista statunitense, ma purtroppo manca la densità introspettiva del grande maestro italiano e soprattutto è totalmente assente il lirismo evocativo delle sue immagini, anche se non mancano sequenze suggestive, come l’incontro sott’acqua tra padre e figlia, o il loro relax ai bordi della piscina.
Con tutto ciò, anche se riteniamo eccessivo il Leone d’Oro conseguito alla Mostra del Cinema, avendo avuto modo di vedere almeno due films nettamente superiori, come il russo “Ovsianky (Silent Souls)” di Fedorchenko, ed il cileno ”Post Mortem” di Pablo Larrain, dobbiamo comunque riconoscere che, se ci si abbandona al flusso delle immagini, l’Opera si lascia vedere.
E’ peraltro sottile la descrizione della rapida trasferta italiana, nell’ambito della quale egli ha una fugace avventura con una attrice di Milano (la bella Laura Chiatti), dopodichè partecipa al programma Telegatti, presentato da Simona Ventura, con Valeria Marini, Nino Frassica a Maurizio Nichetti, dove riceve un premio e ne fugge totalmente frastornato. Disgustato dalla volgarità della televisione italiana, riparte immediatamente per Los Angeles con la figlia: la Coppola non dice, ma lascia intuire cosa pensa della decadenza etica ed estetica del nostro Paese.
Il film, in realtà, risulta godibile anche per la bella e soffusa colonna sonora, come al solito molto ben curata dalla Regista, che ha incaricato della produzione il gruppo francese dei Phoenix, di cui fa parte il marito; oltre ad un brano di questa Band, ce ne sono di Bryan Ferry, dei Kiss, dei Police, e degli Strokes, tutti appropriati.
I riferimenti alla cultura musicale sono anche presenti con un omaggio al gruppo anarco-punk hardcore “Black Flag”, una maglietta con l’emblema del quale viene indossata dal protagonista durante una faticosa seduta di trucco.
Questo film, certamente incompiuto ma interessante, rappresenta forse l’opera più minimalista sinora realizzata da Sophia Coppola: vi si leggono senz’altro riferimenti autobiografici (il padre Francio Ford la faceva vivere costantemente negli alberghi e sembra fosse un instancabile seduttore).
Per certi aspetti altresì esso ci rammenta l’opera del grande scrittore Raymond Carver, che descriveva tutto della vita partendo dal niente, o addirittura del primo Bret Easton Ellis, la cui opera “Meno di Zero” è letteralmente citata dal Protagonista, che confessa alla sua ex moglie di sentirsi meno di niente.

Recensione di Dark Rider

Perchè no


★★☆☆☆
“Peccato, ho visto un brutto film” ho pensato appena finito. E sarebbe finito lì il mio coinvolgimento per Somewhere se di lì a pochi giorni non avessi saputo che aveva vinto il Leone d’Oro a Venezia; e allora no, mi è venuta voglia di fare qualche considerazione di più e anche di esternare il mio fastidio per una pellicola così pretenziosa ma tutto sommato poi così vuota.
La materia di cui si parla è fredda e la vicenda descritta, scarna e asettica, è narrata in maniera quasi documentaristica: si racconta la squallida e algida vita di un divo di Hollywood, Johnny Marco, che, per quanto osannato dal pubblico e amato da donne bellissime e disponibili, diventa quasi una macchietta di se stesso, tra spettacolini di lap-dance privati e amplessi diventati così routinari da addormentarsi sul più bello. Già fin qui il tutto sembra abbastanza insignificante per essere narrato in un film di qualche interesse. Ma lo scoop è l’inaspettato ingresso nella vita dello sciamannato “bello e dannato” della dolce e ingenua figlia undicenne, Cleo, che deve insolitamente trascorrere un periodo col padre. E qui la trama si arricchisce di gelati a mezzanotte mangiati insieme sul lettone, colazioni amorevoli cucinate per il ritrovato padre dalla giudiziosa adolescente, intime cenette notturne complete di sguardi ammiccanti e complici, la scoperta delle doti ginniche della figlia, ottima pattinatrice, fin’ora bellamente ignorate dal padre, fino a scenette di gelosia della bimba quando si sente scippare il ruolo di primadonna nella vita del padre dal passaggio notturno dell’ennesima attricetta ben felice di concedersi al bel Johnny. Insomma il tutto talmente sopra le righe che chiunque di noi non vorrebbe mai e poi mai vivere in prima persona quella patinata e futile esistenza, tanto più dopo la svolta mielosa imposta dall’arrivo della giovane figlia……. Ma immancabile è la crisi: alla partenza della figlia il novello padre si sente depredato del ruolo genitoriale, la sua esistenza ora non ha più senso e vede chiaramente tutto lo squallore che a noi era chiaro fin dalle prime scene, rimpiangendo la semplice dolcezza della vita familiare che per pochi giorni era stata concessa anche a lui.
Il film è costellato di citazioni e riferimenti a luoghi e situazioni del mondo dello spettacolo: il primo è l’ambientazione della casa di Johnny Marco nel “leggendario” hotel Chateau Marmont, noto però solo al pubblico californiano e perfettamente sconosciuto per tutti gli altri. Piacevoli sono senza dubbio le apparizioni di tanti attori noti (come Benicio del Toro) ma ci si chiede se tutta la parte girata in Italia quando il nostro protagonista viene a ritirare un prestigioso Telegatto direttamente dalla mani di Simona Ventura, abbia un senso per un pubblico non italiano. E anche su questo episodio ci si interroga: è un omaggio all’Italia mostrare uno spezzone di show televisivo di dubbio gusto e metterlo così bellamente alla berlina? Non che non se lo meriti, ma è un omaggio o è piuttosto uno sberleffo, tanto più che poi il film ha vinto il Leone d’Oro e probabilmente quell’immagine dell’Italia girerà tutto il mondo?
E poi è l’opulenza dei mezzi la vera protagonista di questo patinatissimo film: una Ferrari sempre presente che accompagna tutti gli spostamenti dei nostri eroi; e quando non basta la Ferrari è addirittura con l’elicottero che Johnny accompagna la figlia al campo estivo, rigorosamente da molte migliaia di dollari a settimana, senza che ci sia nessun vero bisogno di questo mezzo nello svolgimento della trama; senza contare l’ambientazione da sogno nella suite milanese dove vengono ospitati per il breve soggiorno in Italia. E’ come se si cercasse ogni pretesto per mostrare a molti che non possono permetterselo la vita dei nuovi nababbi, futili e finti, per i quali conta solo apparire, meglio se in TV. Fino ad arrivare con l’epilogo a mostrare una faccia drammaticamente in difficoltà con se stessi e con i propri valori, tutto sommato insignificanti. Ma se era questo lo scopo del film allora tutta l’operazione è drammaticamente banale, con molte altre, datate pellicole che ce l’hanno raccontato meglio e in maniera più coinvolgente.
Forse l’unica vera valenza del film è la fotografia, l’estetica ricercata e rigorosa di ogni singola immagine (anche a livello sonoro con la scelta delle musiche dei Phoenix perfettamente in tono): aver fatto un film laddove il soggetto e la sceneggiatura sono veramente insignificanti e aver scelto poi di proposito un linguaggio filmico freddo e asettico, perché di questo si voleva narrare: della freddezza ed inutilità delle vicende attuali che alcuni vivono, a cui poi si crede così tanto da farle diventare spettacolo. Se per parlare di noia bisogna fare un film noioso allora sì, la Coppola ha fatto un film perfettamente riuscito. Peccato che per molti sia solo un esercizio di stile.
Prima era solo Quentin Tarantino a rendere omaggio all’Italia dei B-movies, e adesso è anche la figlia di Francis Ford Coppola a rendere omaggio all’Italia, rigorosamente allo spettacolo di serie B. E non a caso ha vinto il Leone d’Oro proprio l’anno in cui il presidente della Giuria a Venezia era Tarantino. Ma di un film così c’era bisogno? Sembra più un’operazione autoreferenziata per un piccolo gruppo di cineasti che si capiscono solo tra di loro, si dipingono quadrucci ammiccanti a vicenda e poi si distribuiscono addirittura premi internazionali, davanti a un pubblico attonito che si chiede perché mai buttare via preziose occasioni e fare film così inutili.

Recensione di Susanna

  2 Responses to “Somewhere: perchè sì, perchè no.”

  1. SOMEWHERE letteralmente si traduce da qualche parte, in qualche posto. E’ intraducibile in italiano con una sola parola. Potremmo tradurlo con ovunque? Ma no, È esattamente il contrario. Somewhere over the rainbow way up high, there’s a land that I heard of once in a lullaby. Somewhere over the rainbow skies are blue, …and the dreams that you dare to dream really do come true. Da qualche parte sopra l’arcobaleno, proprio lassù, ci sono i sogni che hai fatto una volta durante la ninna nanna da qualche parte sopra l’arcobaleno volano uccelli blu e i sogni che hai fatto, i sogni diventano davvero realtà. Da qualche parte ci sono io, da qualche parte ha un senso la mia esistenza, da qualche parte riesco a dare un senso a questa mia vita. Somewhere è un film bellissimo, secondo me, un film che deve essere ascoltato con molta attenzione, ogni rumore anche il più lieve ha un senso.

  2. A livello di sensazione, condivido le osservazioni di Lia; l’approccio all’opera della Coppola deve essere emozionale, il flusso delle immagini rammenta il linguaggio di grandi Autori del passato, sui volti dolenti dei Protagonisti c’è tutta la vuotezza, la “emptyness” di una vita sfavillante, ma priva di autenticità e di valore, ma anche la disperata ricerca del senso della vita. Impalpabile, sottile ed introspettivo, eppure discontinuo, il film è costituito dalla materia di cui sono fatti i sogni.

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