Set 232011
 

Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Venezia, 31 agosto-10 settembre 2011

Continuamente in bilico tra esigenze di promozione e marketing ed autoriali, quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia ha deciso addirittura una preinaugurazione del Festival, il 30 agosto, con la proiezione di “Box Office 3 D”, di Ezio Greggio, che ha riscosso grande successo di pubblico, ma non di critica.

La rassegna vera e propria è stata avviata il 31 con “The Ides of March”, dramma politico esistenziale di Gorge Clooney, molto apprezzato in tutti gli ambiti. L’attore stesso è stato protagonista di una lunga passerella sul Red Carpet, ed ha riscosso, ancora una volta, come campione del Cinema “Liberal”, un notevole successo personale.

Nei primi giorni la presenza al Lido di molti altri divi, come Madonna, Monica Bellucci, Kate Winslet, l’emergente Michael Fassbender, Viggo Mortensen, ha conferito alla Mostra quel retroterra glamour che molti organizzatori si prefiggevano, ma, passato il primo week end le passerelle sul “Red Carpet” si sono molto attenuate, ed il vero trionfatore del Festival è stato, per una volta, il “Cinema d’Autore”. Peraltro un improvvisato breve concerto di Patti Smith, venuta a presentare il film in memoria di Nanda Pivano, di cui è coprotagonista, ha creato molta emozione.

Se anche l’infaticabile Marco Muller, Direttore da anni della Mostra, aveva tentato di conciliare le esigenze del “mainstream” con quelle della autorialità, alla fine è in favore di quest’ultima che il pendolo della medesima si è nettamente spostato. La premiazione dell’elitario “Faust” di Sokurov ne è stato il definitivo suggello.

Ma passiamo in rassegna le opere cui abbiamo avuto occasione di assistere durante il nostro soggiorno al Lido, riferendo del meritatissimo Leone d’Oro alla carriera per Marco Belloccio e senza omettere di dar conto delle polemiche verificatesi dopo l’assegnazione dei vari premi.

Carnage: Regia: Roman Polanski, con Kate Winslet, Jodie Foster, Christoph Waltz, John C. Reilly, Roman Polanski

Produzione:Francia/Germania/Polonia/Spagna, 2011, Durata 79 minuti

★★★★☆

Il film inizia in un parco di New York, dove due ragazzini, per una lite di gioco, si picchiano, ed uno rimane ferito.
I rispettivi genitori si incontrano per comporre civilmente la questione, e dare un esempio ai figli scapestrati. I padroni di casa, genitori del ragazzo contuso, sono la “liberal” Jodie Foster, che scrive di missioni umanitarie e di Darfur, e John C. Reilly, che vende oggetti domestici, in particolare accessori per il bagno, mentre gli altri genitori sono Kate Winslet, mediatrice finanziaria, e Christoph Waltz, avvocato, che è continuamente al cellulare per cercare di difendere un’azienda farmaceutica accusata di aver messo in commercio farmaci gravemente tossici.

Dall’iniziale convivialità, fatta di reciproci apprezzamenti, e di apparente forte senso civico, di torte familiari offerte, i quattro precipitano lentamente, inesorabilmente in un inferno di aggressività e di contumelie, in un conflitto tra due mondi antagonisti, tra due stili di vita inconciliabili, tra due punti di vista opposti, formati da reciproco disprezzo, rancore e risentimento. L’antagonismo contagia inoltre i rapporti di coppia, e la discussione degenera in un drammatico bellum omnium contra omnes, che devasta la stessa vita coniugale.

Tratto dal libro di Yasmine Reza, pubblicato in Italia da Adelphi, “Le Dieu du Carnage”, già tradotto in varie “pieces” teatrali in gran parte del mondo, Polansky realizza una perfetta commedia drammatica, con il suo stile sulfureo, con una cura dei particolari maniacale ed estremamente cinematografica (il cellulare del marito gettato con disprezzo da Kate Winslet nel vaso pieno d’acqua, Jodie Foster che si dispera per il raro libro d’arte sporcato dal vomito), e conferma le sue grandi doti di narratore, in particolare descrivendo ambienti ristretti, e fortemente claustrofobici, quasi tornando, per certi versi, ma con diverse modalità, ai suoi antichi capolavori “Repulsion” e “l’Inquilino del terzo piano”, dove la progressiva depravazione dell’io ed il terrore psichico venivano mirabilmente descritti. I quattro attori, ed in particolare le due donne, sono straordinari, e riescono a tenere alta la tensione in ogni momento del film. Il regista, che si concede una rapida apparizione nella parte di un vicino di casa curioso, fatta eccezione per l’ambientazione newyorkese, è molto fedele al libro della Reza, sua amica personale, della quale sottolinea la visione carceraria dei rapporti coniugali, considerati come tomba dei sentimenti e del rispetto reciproco; lancia inoltre, un lucido ed amaro strale contro le convenzioni sociali e la “Politically Correcteness”, svelandone l’ipocrisia.

L’unico dettaglio che forse esce dallo stile polanskiano, conferendo all’opera una piccola luce di speranza, è dato dall’ultima scena del film, dove nel parco si vedono i due ragazzi giocare di nuovo insieme.

A Dangerous Method: Regia: David Cronenberg, con Michael Fassbender, Viggo Mortensen, Keira Knightley, Vincent Cassell

Produzione: Germania, Canada, 2011, Durata 99 minuti

★★★★☆

L’opera di David Cronenberg, che rievoca il pericoloso triangolo amoroso e professionale tra Jung (Michael Fassbender), Freud (Viggo Mortensen) e Sabina Spielrein (Keira Knighthley), tratta dalla sceneggiatura di Christopher Hampton, rappresenta senz’altro uno dei vertici creativi della Mostra, anche se il regista canadese, di formazione calvinista e freudiana, attenendosi scrupolosamente al testo, deve raffreddare fortemente il suo stile visionario, perturbante e claustrofobico, in una dinamica “mainstream” per lui inedita.

La narrazione della relazione del giovane Jung (Michael Fassbender), che applicò, da buon allievo freudiano, le “associazioni libere” alla isterica paziente Sabina Spielrein, ottenendone la guarigione, avviandola, prima donna nella storia, alla professione di analista, ed infine invaghendosi di lei, procede in maniera limpida, depurata della carica trasgressiva che conosciamo nel Regista, che qui indugia solamente in alcune scene di sadomasochismo appena accennate, comunque indispensabili alla comprensione del racconto.

La donna viene descritta nella sua genialità, la sua passione per il suo medico ben evidenziata, anche se la mimica della Knigthley, soprattutto nella descrizione della malattia appare un po’ troppo alterata; il film lascia intendere che le sue teorie oltremodo moderne contaminarono sia Jung che Freud, in quello che diventò un vero triangolo intellettuale e sentimentale, ma determinarono anche la rottura irrimediabile tra i due. Se infatti Freud assunse in parte le teorie della Spielrein, che consideravano il sesso come perdita di sé, una frantumazione dell’io in contatto con la pulsione di morte, l’esoterico Jung, creatore dell’Archetipo, concetto che indica i contenuti strutturali dell’inconscio collettivo, si rifiutò di considerare la sessualità come unico motore delle dinamiche psichiche umane.

Un lungo dibattito teorico tra i due padri della Psicoanalisi è descritto con mirabile ironia, e notevole precisione scientifica; bisogna dire che concetti complessi vengono esemplificati e resi comprensibili al grande pubblico, in una rappresentazione un po’ edulcorata, ma efficace, soprattutto per l’ambito “mainstream” cui l’opera è destinata.

Sicuramente il Cronenberg delle inquietudini perverse di “Videodrome”, o delle allucinazioni de “Il Pasto Nudo” era cineasta più innovativo e sperimentale; egli si muoveva tra i confini del dicibile e dell’indicibile, realizzando opere di forte suggestione visiva, e di grande introspezione psichica. Eppure, anche quest’opera, dalla narrazione così tradizionale, ove i demoni del regista vengono così ben tenuti a freno, ha un suo sottile ed inquietante fascino.

L’interpretazione di Michael Fassbender e di Viggo Mortensen è appropriata e credibile, mentre Keira Knightley appare un po’ sopra le righe. In una breve apparizione Vincent Cassell interpreta lo psicanalista degenerato Otto Gross, sfrenato nel seguire la teoria del piacere a tutti i costi, e la poligamia, visto quasi come un antesignano della Rivoluzione del ‘68, che induce Jung al tradimento della moglie, relegata al ruolo di madre infelice e comprensiva (una glaciale ed efficace Sarah Gadon, con un volto livido, quasi spettrale) ed alla trasgressione.

W.E. : Regia: Madonna, con Abbie Cornish, Andrea Riseborough, James D’Arcy, Oscar Isaac

Produzione: Usa, 2011, Durata 110 minuti

★★☆☆☆

Madonna ha creduto molto in questo progetto, la sua seconda regia, ed ha investito molte energie nella sua realizzazione.

E’ la storia di una donna newyorchese dei nostri tempi, Wally, alle prese con una forte infelicità esistenziale, determinata dalla presenza di un marito arido e violento, che la tradisce continuamente e le nega il figlio che desidera. La donna, con l’occasione di un’asta di Sotheby’s, viene a conoscenza diretta, attraverso gli oggetti preziosi esposti, della vita di Wallis Simpson ed Edoardo VIII, il re che abdicò in favore del fratello, che diventò Re Giorgio VI, per poter sposare la pluridivorziata avventuriera americana.

Il film ricostruisce le due storie parallele, attraverso l’identificazione della donna in Wallis Simpson, di cui studia carattere, vicende, personalità, sino a richiedere l’autorizzazione ad Al Fayed, custode di molte lettere e documenti della mancata coppia reale, di prenderne visione, al fine di scoprire i condizionamenti e le rinunce subite dalla Simpson dopo il matrimonio con l’ex sovrano.

Attraverso il passare del tempo, dagli anni trenta alla fine dei novanta, ricostruiamo le vicende della vita del Duca e della Duchessa di Windsor, banditi da Corte a seguito dello scandalo, costellate di gioie, dolori, rinunce, mettendo in parallelo la loro storia d’amore con le drammatiche vicende di Wally, che però, alla fine, incontra un uomo più giovane, custode dei beni d’asta, con il quale intraprende un’intensa relazione d’amore.

Il film è sontuoso, calligrafico, molto ben girato, accurato sin nei minimi particolari nella ricostruzione d’epoca, ma manca totalmente di pathos; le vicende, pur drammatiche dei personaggi vengono descritte con una certa freddezza; risulta palese che Madonna vive una forte identificazione con il personaggio di Wallis Simpson, donna spregiudicata, volitiva, ma capace di enormi sacrifici per difendere la sua storia d’amore. Sul Red Carpet ha fatto un’apparizione estremamente professionale e misurata, priva degli eccessi d’altri tempi, indossando un abito certamente ispirato alla Duchessa di Windsor.

Ma l’opera, pur patinata e ben realizzata, molto applaudita dal pubblico, convince a metà.

Un Etè Brulant: Regia: Philippe Garrel, con Louis Garrel, Monica Bellucci, Celine Sallette

Produzione: Francia, Italia, Svezia, Durata 95 minuti

★★☆☆☆

Stavolta l’Autore godardiano di “Jentende Plus la Guitare”, dedicato alla Musa Nico, a lungo sua compagna, e della splendida rivisitazione del Maggio francese del 2008, “Les Amants Reguliers”, Maestro della Nouvelle Vague, non centra il bersaglio.

Il film inizia con il nudo “pittorico” di Monica Bellucci, uno dei tormentoni del Festival: immediatamente dopo questa introduzione di plastica bellezza, assistiamo ad un tragico tentativo di suicidio, quello di Frederic( Louis Garrell, già interprete di “The Dreamers” di Bertolucci), pittore parigino dalla vita bohemienne, sposato con la bella attrice italiana Angelèe (Monica Bellucci) che va a schiantarsi con la sua automobile. Il suo migliore amico Paul a ritroso ripercorre le sue ultime vicende di vita, che hanno determinato quel gesto estremo. Veniamo a conoscenza della sua tormentata storia con la moglie, più grande di lui, che sembra subire le sue infedeltà, ma che in realtà lo ripaga della stessa moneta, collezionando uomini su uomini, frequentando locali, con freddezza e cinismo, rivendicando spazi di libertà. Vengono così ricostruiti gli ultimi mesi di esistenza di Frederic, nella casa romana ove si era trasferito con Angelèe, e dove Paul era stato a lungo ospite con la fidanzata Elisabeth, e assistiamo al progressivo degrado della loro relazione.
Garrel descrive con rigore questa figura di pittore tragico e tormentato, non illuminato da una coscienza politica, ma amante dell’Arte e del Bello, chiuso nel suo microcosmo, che professa l’amore libero, ma viene sopraffatto dalla gelosia e dalla fine del suo matrimonio.

Accanto a loro, la coppia di amici Paul (Jerome Robart) ed Elisabeth (Celine Sallette), fortemente politicizzati: lui è un attore che vende per strada un giornalino di un gruppuscolo rivoluzionario, lei un’attrice che ha interpretato un simbolo resistenziale sul set del film ove si sono conosciuti. I due sono certamente affascinati dalla concezione della bellezza che permea la vita dei loro amici a Roma, dal loro profondo rapporto con la creazione artistica, nell’ambito di una concezione sensuale dell’esistenza, ma Garrel sembra voler affermare che la coscienza politica e la costante attenzione alle vicende sociali della Francia (e dell’Italia), la maggiore aderenza alla realtà, insomma, conferiscono alla coppia una maggiore stabilità.

Il film è stato fortemente fischiato, probabilmente considerato passatista, dal ritmo lento e realizzato con una recitazione criptica da parte degli attori. In realtà si tratta di un tentativo non ben riuscito di dar vita ad un cinema romantico, ove i sentimenti, espressi ed inespressi, rappresentano l’alfa e l’omega della vita e della morte. Nella sostanza, a questo film manca proprio la connotazione più rilevante e presente nel Cinema di Philippe Garrel: la Poesia.

Ruggine: Regia: Daniele Gaglianone, con Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valeria Solarino, Valerio Mastandrea

produzione, Italia, 2011; Durata 101 minuti

★★☆☆☆

Con “Ruggine”, Daniele Gaglianone, già autore nel 2000 dello splendido “I nostri anni” realizza un’opera cupa e tenebrosa, che crea un costante senso di malessere e di inquietudine.

In una orribile periferia della Torino operaia degli anni settanta vediamo un gruppo di bambini cimentarsi in giochi più o meno innocenti, utilizzando sovente una fabbrica abbandonata e fatiscente denominata “Il Castello”: tra di essi vengono messi in evidenza Carmine, il prepotente e violento capo del gruppo, e Sandro e Cinzia, che lo seguono nelle sue scorribande. Ad un certo punto arriva nella comunità il Dr. Boldrini, impersonato da un Filippo Timi bravo, ma a volte eccessivo e quasi caricaturale, che al di là dei modi signorili, che incutono timore e rispetto, si rileva un terribile mostro, pedofilo assassino di bambini.

E sarà il gruppo stesso, dopo aver compreso, ad attirarlo in un tranello mortale. I tre bambini porteranno per sempre i segni di quella terribile esperienza: in altro piano di lettura Gaglianone li mostra ai nostri giorni. Vediamo Carmine (Valerio Mastandrea) che ciondola in un bar di periferia, pieno di rabbia contro il mondo, Sandro (Stefano Accorsi), che passa le sue giornate a giocare con il figlio in modo soffocante e fastidioso, e Cinzia, Professoressa solitaria, allibita nel sentire agli scrutini un collega quasi giustificare un possibile caso di pedofilia. Ad un certo punto in una sequenza forse puramente immaginaria, li vediamo tutti e tre in metropolitana, ciascuno chiuso nella sua disperata solitudine.

Il film è claustrofobico ed inquietante, le immagini spesso sono ellittiche, e ricorrono a primi piani insoliti, utilizzando i colori, soprattutto il bruno ed il marrone in funzione psicologica al fine di descrivere il degrado, ma i due piani di lettura (i protagonisti visti da bambini e visti oggi) appaiono irrisolti e spesso confusi.

Il Regista si è comunque calato in una materia così tenebrosa con una certa vena creativa, e senza indurre al sensazionalismo.

Terraferma: Regia: Emanuele Crialese, con Filippo Pupillo, Donatella Finocchiaro, Mimmo Cuticchio, Beppe Fiorello, Timnit T.

produzione, Italia, Francia, 2011, Durata 88 minuti

★★★☆☆

Emanuele Crialese ritorna, dopo “Nuovo Mondo”, sul tema dell’immigrazione, e lo fa in maniera non convenzionale, rispetto al pensiero unico che ormai domina i nostri dibattiti politici ed i nostri Media.

Descrivendo la vita di una famiglia di Linosa, ove Giulietta (Donatella Finocchiaro), vedova, vive con il figlio ventenne Filippo (Filippo Puccillo) ed il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio), pescatore rispettoso delle antiche leggi del Mare, il Regista mette a confronto vari mondi, l’anelito alla modernità e la difesa delle identità tradizionali

Giulietta vorrebbe allontanarsi dall’isola per avere nuove opportunità di vita ed offrirle al figlio, un ragazzo solitario ed introverso, un personaggio che sembra uscito da un film di Pasolini, mentre il nonno Ernesto vuole vivere la sua vita di pescatore come sempre ha fatto, in piena coerenza con i suoi principi etici.

Durante una battuta di pesca Filippo ed Ernesto salvano dall’annegamento quattro profughi clandestini, tra cui una donna incinta, Sara (Timnit T.), che, non appena a riva, anziché fuggire come gli altri, si ferma presso la loro casa e, ivi nascosta, partorisce il bimbo, definendo sorella la riluttante Giulietta, che le ha concesso ospitalità.

Ernesto rivendica la legge del mare, che impone di salvare chi rischia di annegare, incurante delle leggi attuali che considerano la presa a bordo di migranti come reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma la Guardia di Finanza, venuta a conoscenza dell’accaduto, gli sequestra il peschereccio.

Nel frattempo, l’isola punta sul turismo per ammodernarsi, e Nino (Beppe Fiorello) cerca di nascondere la realtà dei profughi, intrattenendo i turisti annoiati con trovate da Club Mediterranèe.

Ma sarà il ruvido Filippo, erede delle leggi morali dei pescatori ad intraprendere il difficile viaggio verso il continente, al fine di consentire alla donna ed al neonato di ricongiungersi con il marito, da tempo a Torino. Con un atto di ribellione sfiderà il mare con una fragile imbarcazione, ed intraprenderà, anche per sé stesso, un difficile viaggio verso la “Terraferma”, per una nuova vita.

Il film ha un notevole fascino visivo; il mare viene visto come un potente archetipo, dispensatore di vita e di morte.

Di grande suggestione l’improvviso arrivo notturno dei migranti a nuoto, che assaltano letteralmente le imbarcazioni, in cerca di salvezza. Non ci sono messaggi con intento politico, ma l’idea di ritrovare la capacità di confronto con la legge morale, e con il senso di umanità. La figura del vecchio Patriarca, Ernesto, coerente ed inflessibile, vero depositario dei principi di etica che Crialese rivendica, sembra quasi ricalcare, anche nell’aspetto maestoso, la figura mitologica di un Dio del Mare. Il volto di Sara (Timnit.T, una vera profuga salvata da morte in mare pochi anni fa) è di grande intensità, e riassume con grande efficacia tutto il dolore degli Ultimi.

Il Festival del Cinema si è concluso con la premiazione con il “Leone d’Oro” del film “Faust” del grande regista russo Alexander Sokurov, già Autore della trilogia sui dittatori della Storia: “Moloch” tratteggiava la vita privata di Hitler, ed il suo rapporto con Eva Braun, con grande talento visionario; “Taurus” era incentrato su Lenin ed “Il Sole” sull’Imperatore del Giappone Hiro Hito.

Da sempre ossessionato dal Potere in tutte le sue forme, Sokurov è sicuramente il più grande regista russo esistente: estremamente colto, ha ritenuto, rivisitando il mito di “Faust” di rendere omaggio alla Classicità, ma con occhio rivolto alla Modernità; Darren Aronofsky, il talentuoso regista de “Il Cigno Nero”, Presidente della Giuria, sarà stato sicuramente rapito dal genio creativo dell’Autore.

Il Leone d’Argento è stato attribuito a “People Mountain, People Sea” di Caj ShangJung, che speriamo di poter vedere quanto prima.

La Coppa Volpi per il miglior attore è stata attribuita a Michael Fassbender, per l’inquietante “Shame”, di Steve Mc Queen, ove interpreta un uomo malato di “Sex addiction”.

L’Italia è tornata ad ottenere un riconoscimento importante con il film di Crialese, che ha meritatamente ottenuto il Premio della Giuria.

L’unico rammarico, almeno per ciò che abbiamo potuto vedere, è che i films di Polanski e di Cronenberg non abbiamo ottenuto alcun riconoscimento.
Polemiche del tutto pretestuose si sono determinate dopo il premio a Crialese, per lo spinoso tema dell’emigrazione, che ha in realtà coinvolto diverse buone pellicole italiane proiettate alla Mostra. E’ stato incredibilmente accusato di essere stato raccomandato, come se una Giuria internazionale potesse essere facilmente influenzabile a fini politici.

Riteniamo inoltre molto appropriato il Premio alla carriera ad uno degli Autori italiani più grandi di sempre, Marco Bellocchio, che nella sua filmografia ha affrontato i recessi più oscuri dell’animo umano, non temendo di confrontarsi coraggiosamente con il tema della Follia, l’inquietudine esistenziale, l’arroganza del potere religioso e politico, l’assurdità e l’inumanità del contropotere-terrorismo.

In definitiva Venezia Cinema 2011 ha presentato molti films eccellenti, ed ha rappresentato una vera rinascita del Cinema d’Autore.

Reportage di Dark Rider

Foto di Rita

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