Giu 182013
 

Roma, Aula Magna dell’Università La Sapienza, 11 giugno 2013

★★★★½

Essere ebreo e rom allo stesso tempo, come Ion Stanescu, il violinista della Moni Ovadia Stage Orchestra, forse è il massimo della sfiga – come suggerisce il titolare e animatore di questo bizzarro ensamble di musicisti – ma sicuramente è anche alla radice di una vitalità musicale che non ha eguali, in Europa, e che ha segnato intensamente tutto il nostro repertorio sonoro. Per secoli, infatti, numerosi popoli hanno solcato il territorio del vecchio continente, lasciando tracce della propria cultura, assimilando elementi locali e riesportando altrove quanto assimilato. Ne è testimone la musica: sia quella “popolare”, dove la mescolanza tra culture è totale, senza troppi riguardi nemmeno per la vicinanza geografica, sia quella “colta”, che ha visto i maggiori musicisti attingere a piene mani dalle tradizioni specie dell’area balcanica, a partire dai rom, facendo dei territori ungherese e rumeno i centri propulsori di tutto ciò che è ballabile e fa ritmo e fa festa, in Europa.
Moni Ovadia, artista ebreo militante – specie in chiave anti-razzista – fa di queste contaminazioni un manifesto della tolleranza, un richiamo all’assurdità, non solo delle discriminazioni nei confronti dei rom, ma anche degli stessi confini nazionali, quali segni che – specie in campo musicale – si rivelano del tutto inconsistenti.
L’artista di origine bulgara ha messo insieme, sul palco romano della Sapienza, la sua Stage Orchestra, composta in buona parte di artisti rom, e l’Ensemble Nuovo Contrappunto, diretta da Mario Ancillotti. I due gruppi si confrontano e si fondono, proprio come, per due secoli, hanno fatto la tradizione popolare – zingara ed ebrea – e quella colta.
Lo spettatore viene accompagnato per mano in un percorso quasi didascalico, che alterna brani della tradizione – rom, rumena o ebraica – con opere dei musicisti che, più degli altri, hanno attinto a quelle tradizioni: Brahms, Bartok e Sostakovic, oltre al rumeno George Enescu. La straordinaria bellezza del risultato deriva forse dalla forza insita nel canto popolare, quale espressione “autenticamente umana” di sentimenti profondamente radicati nella nostra cultura e, perciò, ancora vivi in ciascuno di noi.

Recensione di Paolo Subioli

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