Ago 142012
 

Come ormai avviene da qualche estate, Slowcult suggerisce per la pausa ferragostana l’ascolto di alcuni album che meritano un orecchio più attento, favorito dalla possibilità di qualche ora di meritato relax. Per questa prima di due parti, abbiamo raccolto suggerimenti di opere pubblicate negli anni settanta. Buon ascolto e buon Ferragosto!

Attilio consiglia:

DAVID BOWIE – The rise and fall of Ziggy Stardust (and the Spiders from
Mars) – RCA 1972

Non è un giudizio nè un invito all’acquisto di un’opera che tutti
avranno nelle personali discografie (e che spero a breve diventi
argomento di studio nelle scuole).
E’ un’accusa ai miei genitori, che peraltro adoro, per aver tergiversato
prima di decidere di mettermi al mondo. Fossi nato una decina di anni
prima , questo capolavoro lo avrei sicuramente in vinile originale sin
dal 1973 (e non avrei dovuto aspettare la ristampa in cd del 1990), avrei visto dal vivo i Genesis con zio Pietro al Palaeur l’anno appresso, magari pure i Clash a Firenze, etc etc etc.
You’re too old to lose it, too young to chose it..

Susanna consiglia:

La Gatta Cenerentola – Roberto De Simone – NCCP – (Emi 1976)

La Gatta Cenerentola è, a mio avviso, una delle maggiori e indimenticabili pietre miliari della cultura popolare italiana, quasi un passaggio obbligato per chi ama la musica tradizionale italiana; un disco di quelli che ad ogni ascolto svela un nuovo particolare emozionante che fino ad allora ti era sfuggito, nascosto in mezzo alle tante e disparate suggestioni che si rincorrono, ti stuzzicano e si annidano nella tua coscienza più ancestrale, rivelandosi all’improvviso e dandoti una nuova soddisfazione che fino allora era stata latente.

Ma non parlerò dell’opera teatrale che ha debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1976, cantata dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare al massimo del suo splendore, rivoluzionando la coscienza comune della musica partenopea, fino ad allora conosciuta solo come musica melodica e romantica.

Non parlerò del compositore Roberto De Simone che, lavorando da molti anni come ricercatore antropologico e conoscendo approfonditamente la vasta cultura, sia colta che popolare, dell’area campana, ha raccolto e rielaborato molte forme di musiche tradizionali preesistenti (filastrocche, villanelle, tammurriate, moresche, tarantelle, ecc.) dandogli nuova vita, un’attualissima modernità e facendoci conoscere pezzi bellissimi come Jesce Sole, Oi mamma ca mò vene, la Canzone del Monacello o la tammurriata del Coro delle Lavandaie.

Non parlerò di come il genio di De Simone ha utilizzato le voci indimenticabili di Fausta Vetere o Peppe Barra (solo per citarne alcuni) e di tutti gli altri fantastici interpreti per sintetizzare in un capolavoro di ironia ed intelligenza tutti i sentimenti che fanno palpitare il cuore: amore, angoscia, rancore, speranza, invidia…., disegnando un affresco corale e senza tempo che parla con magia di uomini e donne di ogni tempo, mettendo in scena la Vita con tutte le sue sfaccettature.

Vorrei solo invitare tutti gli scettici e i sospettosi a non perdere almeno l’ascolto di un paio di pezzi esilaranti e ormai famosissimi di questo CD: la mitica Scena delle ingiurie, dove si inventano le parolacce più disparate e onomatopeiche per sputare fuori rabbia, disprezzo, derisione, avidità, furbizia e il Rosario, dove un gesto antichissimo di ritualità collettiva, atavico e primordiale per la cultura del sud, si trasforma nell’antichissimo rito del pettegolezzo e della maldicenza collettiva……

Forse cose d’altri tempi, ma speriamo che per questa arte e quest’umorismo ci rimanga sempre un po’ di tempo!

Andrea Carletti consiglia:

Krafwerk: Autobahn (Philips/Vertigo 1974)
Lo sportello si chiude, il motore si accende, due colpi di clacson e si parte. Non è l’ennesima cronaca di una normale vacanza, ma l’inizio di un geniale viaggio lungo la Bundesautobahn 555, la prima costruita in Germania, che collega Köln e Bonn. E non si viaggia a bordo di un’auto, ma guidati dalle visioni dei Kraftwerk, che proprio con “Autobahn”, nel 1974, realizzano il disco della svolta, perfetto ponte tra il kraut dei primi tre dischi e l’elettronica minimale e velata di pop della seconda metà degli anni ’70, che ha anticipato e ispirato tantissima della musica degli anni a venire. È un album che riesce ad alternare in dosi equilibrate e mai esagerate sperimentazione e pop, rumorismo e melodia, grande raffinatezza e leggero umorismo, da ascoltare e riascoltare per scoprirne le tante sfaccettature.
La bellissima e fondamentale title track occupa completamente il lato A dell’album superando i 22 minuti di durata, ed è un lungo susseguirsi di loop ipnotici e melodie eteree, che vogliono riprodurre la monotonia del viaggio (il ritornello dice semplicemente “Wir fahr’n fahr’n fahr’n auf der Autobahn”, ovvero “Viaggiamo viaggiamo viaggiamo sull’autostrada”), il susseguirsi dei diversi paesaggi, la voglia di fantasticare di chi sta guidando. Il suono, cesellato con l’aiuto del genio di Conrad Plank, che è stato dietro il banco di regia per molti dei capolavori dell’avanguardia tedesca di quegli anni, è fatto soprattutto di sintetizzatori, con il Moog in primo piano, di drum machine, ma anche di raffinati interventi del flauto traverso ad esaltare le bellissime melodie. È una bolla rarefatta e ricca di dettagli che avvolge l’ascoltatore, e pur volendo descrivere nella maniera più realistica un’esperienza quotidiana come quella di un semplice viaggio in macchina è in grado di trasportarci in una realtà parallela, di isolarci e farci evadere dal mondo esterno, di far viaggiare la mente anche stando seduti davanti allo stereo.
Il lato B è diviso in quattro tracce: “Kometenmelodie”, divisa in due parti, ci porta nello spazio siderale, prima con poche note scure e lente, esaltate dal bellissimo lavoro del pianoforte, poi con una melodia solare supportata dal motorik (il beat in 4/4 tipico del krautrock) suonato dalle percussioni elettroniche. In “Mitternacht” sono protagonisti rumori e suoni d’ambiente su cui si inserisce un semplice tema suonato sulle note basse del Moog, mentre in “Morgenspaziergang” i rumori sintetici iniziali lasciano spazio ad un semplice tema dal sapore bucolico suonato dal flauto dolce ripreso e accompagnato da pianoforte, chitarra e flauto traverso.
“Autobahn” è un disco fondamentale per chi vuole comprendere l’evoluzione della musica pop ed elettronica, ma più semplicemente può anche essere la giusta colonna sonora per chi vuole allontanarsi per un po’ dai luoghi e dai ritmi della propria quotidianità, chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare con la mente in uno spazio lontano.

Fabrizio Forno consiglia:

David Bowie – Station to Station (RCA 1976)

Che fine ha fatto David Bowie? Quanto abbiamo bisogno ancora di lui!
Per fortuna ci sono i suoi album da riascoltare, tra cui è stato molto complicato per me operare una scelta da proporre per questa rubrica. Difficile non parlare di Hunky Dory, Space Oddity, The Man Who Sold the World (ricordate la cover unplugged dei Nirvana? Beh, andatevi a risentire subito l’originale), oppure di Ziggy Stardust o della trilogia berlinese prodotta da Brian Eno.
Per spiazzare un po’ tutti ma soprattutto per assecondare la mia indole soul da sempre sopita sotto un guscio più rocchettaro, mi sono deciso a segnalare quest’album del 76, che segnò il rinnovato interesse nei riguardi di una delle più importanti figure emerse nel rock degli anni 70.
Il ritorno del duca bianco, frase celebre tratta dall’incipit della title-track dell’album, significò la fine di un lungo periodo di ritiro dalle scene di Bowie, seguente ad Aladdin Sane, periodo nel quale l’accoglienza al concept album Diamond Dogs ed al successivo Young Americans (dischi peraltro a mio parere bellissimi) fu alquanto fredda ed in molti avevano già recitato il de prufindis della creatività di Ziggy Polveredistelle.
Ecco qui invece un grande album, solo sei tracce, splendidamente suonate, farcite e caratterizzate dalle ottime chitarre di Carlos Alomar e Earl Slick, ricche di passione, lirismo e grandi melodie. La lunga suite inizialmente strumentale del brano di apertura può esserne considerata la sineddoche, ma come non ricordare il funky sbarazzino ed elegante di Golden Years, il classico singolo scala classifiche o la lunga, strappacuore romanticamente cinematografica Word on a Wing?
A proposito di cinema, la foto di copertina era tratta dal grande film L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg, contemporaneo al disco, che contribuì al rilancio di Bowie grazie alla sua ottima interpretazione oltre che alla bontà della pellicola, anch’essa da riscoprire.
Questi tre brani costituivano il lato A dell’ellepi. Il resto lo lascio scoprire a voi, convinto di aver suggerito un ottimo ascolto che non potrà che spingervi a pescare a casaccio nella discografia del grande artista inglese (per lo meno fino a fine anni ottanta) e ritrovare un vecchio amico un po’ trascurato nel recente, di cui sentiamo molto la mancanza ma apprezziamo al contempo l’elegante uscita di scena senza clamori né tentazioni di riproposizioni anacronistiche e spesso di cattivo gusto.

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