Ago 172012
 

Questa seconda parte raccoglie un’eterogenea selezione di opere uscite nell’ultimo ventennio del secolo scorso, che in linea con lo spirito di Slowcult, vuole abbracciare generi e stili diversi dell’universo musicale di qualità. Per concludere, segnaliamo un album appena uscito, ma che suona molto fine ventesimo secolo.

Magister consiglia:
Dead Can Dance – Aion (1990 4AD)
È estate, vacanza umida nelle highlands, dopo aver visitato La Cattedrale di S. Andrews, vi rimettete in macchina per dirigervi sulla A9 poi la A86 in direzione di Fort Augustus e del famoso Lochness. Il cielo è grigio ma ogni tanto tra le nubi appare qualche strappo di blu intenso. Le goccioline di pioggia sono così fini che quando si infrangono sul parabrezza quasi quasi evaporano. Il viaggio di quasi 4 ore invoca a gran forza della musica consona. Date uno sguardo al porta cd e mettete su quello che ci vuole, Aion dei Dead Can Dance. Melodie antiche, voci sublimi, echi di battaglie lontane quando il ferro toccava il ferro oppure la carne. Quando la voce di Dio era dappertutto maestosa e ammonente, inesorabile e punitiva. Pian piano una malinconia accattivante vi ammalia, vi trascina dolcemente e vi ghermisce tra queste quattro pietre quadre, vestigia d’un fasto antico sparse tra fiocchi di erba umida condita periodicamente dal sale della marea.

Federico consiglia:
Philip Glass – Koyaanisqatsi (1983 Island)
Se l’estate precedente vi invitavo a restare in città con la solitaria compagnia dei Killing Joke, quest’anno il consiglio è di fuggire il più lontano possibile: il battito vitale dei centri urbani non accennerà minimamente a diminuire, sarà ben riconoscibile a qualsiasi angolo della strada l’impronta tecnologica e industriale dell’uomo, fagocitato dal tumulto, dalla frenesia e dal disordine. Come scampare a tutto questo, come combatterlo? Quasi trent’anni fa Godfrey Reggio ha cercato di metterci sull’attenti con una serie di straordinari documentari, primo fra tutti Koyaanisquatsi, il suo indiscusso vertice artistico, denunciando il precario equilibrio in cui si trova il mondo odierno. Il connubio con le partiture di Philip Glass va ben oltre il semplice commento musicale, si viene a creare un esperienza sensoriale paragonabile soltanto al Kubrick di 2001. Odissea nello spazio, o, in tempi più recenti, al Terrence Malick di The Tree of Life.
Ma, private delle immagini, le musiche di Philip Glass sembrano mantenere tutta la loro forza, sia quando delineano scenari opprimenti (Pruit Igoe, ripresa anche dalla versione cinematografica di Watchmen per illustrare la “nascita” del Dottor Manhattan), sia nei momenti più aperti, carichi di speranza (Cloudscape, apice del disco). E infine nella chiusura di Prophecies, dove un coro sommesso enuncia la profezia hopi: “Se scaviamo la terra in cerca di oggetti preziosi, inviteremo il disastro a emergere; nel giorno della Purificazione, ci saranno ragnatele tessute ovunque nel cielo; un contenitore di ceneri un giorno potrebbe essere scagliato dal cielo, bruciando la terra e facendo bollire gli oceani”.

Il Signor Giù consiglia:
John Zorn – Naked City (Elektra/Nonesuch 1989)

Naked city è senza dubbio un album divertente. John Zorn e compagni oltre a composizioni originali reinterpretano famose colonne sonore. Con lucida follia si muovono su svariati stili musicali, gli inaspettati cambi e il concentrare le idee in brani di brevissima durata fino all’autoironia sono le basi su cui è concepito il progetto. Il gruppo dopo Naked city darà seguito ad altri lavori, ma a mio giudizio questo esordio rimane il migliore.
John Zorn – Sassofono contralto
Bill Frisell – Chitarra
Fred Frith – Basso
Joey Baron – Batteria
Wayne Horvitz – Tastiere
Yamatsuka Eye – Voce

Constance consiglia:
The Smiths: Hatful Of Hollow (Rough Trade 1984)

“Qualunque cosa voi mettiate in un testo per definire il vostro amore o il vostro odio, Morrissey lo fa meglio”. (Noel Gallagher)

Vorrei partire da questa frase per spiegare perché suggerisco, per questa calda e dolce estate, l’ascolto di un vecchio Album degli Smiths.
E’ una compilation di singoli, tra i più lirici e struggenti che questa band abbia scritto. C’è tutto quello che gli Smiths saranno, un concentrato prezioso, la materia prima di tutta la loro produzione. Gli Smiths hanno avuto una breve storia come gruppo, cinque anni appena, un successo poco commerciale, vendite che hanno raggiunto la vetta della classifica solo con Meat is Murder, eppure alcuni dei brani raccolti in questa compilation, hanno una eco di eternità. La loro essenza è l’humus creativo di una grande coppia: Morrissey e Johnny Marr. Sono i successi che Morrissey canta ancora oggi nei suoi concerti da solo, e che il pubblico gli chiede a gran voce, perché, grandissima parte del successo che hanno avuto le canzoni degli Smiths, si deve oltre che alle loro sonorità musicali, ai testi. In questa raccolta si ascoltano parole che disegnano l’anima senza ipocrisie o sentimentalismi. (Please, Please, Please, Let Me Get What I Want, How soon is now?) Questa chiara visione di se e della nostra miseria umana, Morrissey la racconta con una umiltà eroica: affascinante poeta, geniale.

Quando sarà adesso?

Sono figlio ed erede
Di una timidezza colpevolmente volgare
Sono figlio ed erede
Di niente in particolare
Tu, chiudi il becco!
Come puoi dire
Che affronto le cose nel modo sbagliato
Sono un Uomo e ho bisogno d’essere Amato
Esattamente come chiunque altro

Dark Rider consiglia:
Cradle – Baba Yaga (Ultimate 1996)

“Cradle” misconosciuta band autrice di quest’unico, splendido album trae origine dallo scioglimento dei “Levitation”, seminale band psichedelica, avvenuto a metà degli anni novanta. Terry Bickers, che era stato in passato fondatore anche dei disciolti e pregevoli “House of Love”, diede vita al nuovo progetto, ma esso si rivelò immediatamente troppo sofisticato e troppo poco “mainstream” per arrivare al grande pubblico; infatti, a seguito della realizzazione del disco, l’ensemble si sciolse.
Dopo un brano iniziale squisitamente pop, “Second Nature” che può trarre in inganno, veniamo avvolti da atmosfere splendidamente oniriche, eteree, soffuse, di lieve eppur profondo impatto emotivo, che ci trasportano in un clima rarefatto, assai dilatato, simile a certe atmosfere d’impronta “4AD”, ed al suono “Shoegaze” di quegli anni, nonché ad un certo “Dreampop” alla “Cranes”, ma maggiormente oscuro ed evocativo, caratterizzato da fragili melodie originate da cori lontani di soffuse voci femminili, arpe, chitarre acustiche eteree e sognanti che evocano sensazioni di puro incanto e magia. Un disco di rara bellezza ed intensità, pulsante, lirico ed avvolgente, le cui gemme più preziose sono i brani “Gifts of Unknown Things”, introdotta da un’arpa sognante, e che si dipana in un coro di grande suggestione, “Black Tea”, incanto di arpeggi chitarristici, “The Changes & The Moomins”, soffuso dialogo tra chitarre ed armonica, senza voci, “Home”, sublime incanto di soffici suoni di tastiere, chitarre acustiche e voci,”Immortal”, intenso lirismo originato dai sussurri vocali di Carolin Tree, e la splendida, conclusiva sinfonia psichedelica avvolgente e circolare, “Chloe’s Room”, brano di ben sedici minuti, che rapisce letteralmente l’ascoltatore.
Opera cupa e malinconica, eppure a suo modo luminosa, che per la sua fulgente bellezza e profonda interiorità sembra destinata a rimanere nascosta nei meandri della nostra psiche, quasi che, per rivelarsi, avesse necessità di un oscuro e coinvolgente percorso iniziatico

Fabrizio Fontanelli consiglia:

Glen Hansard: Rhythm and Repose (Anti Records, 2012)

L’assassino torna sempre sul luogo del delitto…e io torno su questo album appena recensito per Slowcult eleggendolo come mio disco dell’estate 2012. Con questo non voglio solo premiare un singolo lavoro, ma l’intera carriera del songwriter dublinese fino ad oggi. Negli ultimi anni Glen Hansard ha fatto molto parlare di sé tra film come Once, i due album a nome Swell Season, un Oscar per miglior canzone e frequentazioni illustri come quella in itinere con Eddie Vedder. Esperienze da far girar la testa a chiunque, ma non a Glen che è rimasto quello che conobbi personalmente al Bewley’s di Grafton Street a Dublino nel ’94, poco prima dell’uscita di Fitzcarraldo, secondo CD dei Frames. Glen è rimasto l’umile e ispirato artista di allora, sempre al timone della sua vita senza concessoni facili di cassetta o di classifica. Venire dall’Irlanda e avere come padri putativi autori come Van Morrison, Luke Kelly e Christy Moore, tra gli altri, vuol dire seguire sempre i percorsi dell’anima.

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